Bombino – intervista esclusiva di Vivamag

Durante il festival di Convergenze il parco Mantegazza di Varese si è animato e riempito di cultura per quattro giorni: teatro, cinema, e tantissima musica proveniente davvero dagli angoli più disparati del mondo. Dal “lac” del comasco Davide Van De Sfroos, fino agli sconfinati orizzonti del deserto del Sahara.

Proprio dal Niger, da quei territori desertici che possono sembrarci tanto ostili, proviene un trentacinquenne Tuareg che del deserto parla con l’ amore e la malinconia di chi ci è nato. In arte Bombino, nella vita Goumour Almoctar, è nato nel 1980 a Tidene, accampamento della popolazione nomade Tuareg, a circa 80 km da Agadez. È alto ed esile, e si presenza a noi nell’eleganza e riservatezza tipici di una cultura che non conosciamo, ma che intravediamo dai suoi occhi rispettosi e attenti. Nei suoi abiti morbidi e chiari è disteso sull’erba del parco prima del sound-check, con la sua chitarra tra le braccia: lei con cui ha passato tante notti, lei con cui ha attraversato molti paesi. È davvero una storia interessante quella di Bombino, che meriterebbe un libro che ancora non esiste: a causa dei conflitti che hanno coinvolto le popolazioni Tuareg nella difesa della propria identità contro coloni francesi e fondamentalisti islamici, Bombino è costretto all’esilio in Algeria con la propria famiglia all’inizio degli anni Novanta.
Tra l’esilio ed il rientro in Niger, in un’adolescenza lontana dalla propria terra, con un padre ostile alla passione del figlio per la musica, e le difficoltà di trovare strumenti, musicisti ed insegnanti, Bombino cresce e assapora il piacere della musica, una musica compagna di vita, musica come espressione culturale, musica come energia: la conoscenza e l’amore per le viscerali vibrazioni di Hendrix, le graffianti atmosfere dei Dire Straits, mescolate con la tradizionale musica Tuareg, hanno portato Bombino ad una musica incredibilmente d’impatto, coinvolgente e profonda, talvolat misteriosa, che cattura dalle prime note.

Abbiamo avuto la fortuna di chiedere a questo personaggio qualche curiosità rispetto alla sua esperienza, dopo l’uscita del secondo album, Nomad (2013) , recensito ottimamente dalla critica internazionale, e con un successo in tour strepitoso:

Ti hanno definito “profeta del blues Tuareg” per il messaggio trasmesso dalla tua musica, favorevole allo scambio di culture, alla tolleranza, e contro ogni forma di estremismo: ti rivedi in questo ruolo?

Anzitutto, io non sono un profeta, ma semplicemente voglio spiegare quanto la musica è importante. Non si sa mai dove la musica può portarci, sopratutto nelle relazioni, nello scambio.
Io vengo dal deserto del nord del Niger, lavoro con gente in tutto il mondo. Ed è per me una cosa molto particolare, una cosa nuova, anche se sono oramai anni che lo faccio. Tutto ciò unisce, è tutto quello che la musica dice. Tu puoi ascoltare qualsiasi tipo di musica e sentirti a tuo agio. Quello che la musica dice, indipendentemente dal tipo di musica è comprensibile, è umano…è semplicemente musica benefica, la musica non ha frontiere, e unisce.

Hai mai avuto paura che il successo limitasse la tua libertà, sia espressiva, che di vita?

Forse il successo mi ha limitato nel vedere la famiglia, ma viaggiando mi faccio una nuova famiglia. Tutti diventano la mia famiglia. Si, io vengo dal deserto, ma ovunque vado trovo e ritrovo anche degli amici di familiari. Forse la musica ci impedisce di fare delle cose. Ma il modo in cui si parla di noi, quando si parla delle nostre origini, permette di esaltare l’importanza di questo miscuglio di culture, di musica, di persone. Nel gruppo di Bombino, io vengo dal Niger, ma c’è chi viene dalla Mauritania, da Boston…diciamo che siamo riusciti a fare una bella miscela.
Sai ogni volta che c’è qualcosa di nuovo la gente ha paura che abbia un’influenza sulla musica dell’attualità o del passato, il che è naturale. Io penso semplicemente che una buona musica si arricchisce e si sviluppa nel suo cammino a traverso le persone. Quello che voglio dire è che, noi siamo stati in Europa, in Africa, in America, e con noi si è evoluta la nostra musica, che si nutre di incontri tra culture diverse. Si ci sono delle influenze, ed io mi sento in obbligo di utilizzarle. La musica subisce un’ influenza. Ma se riusciamo sempre a modernizzare il tradizionale grazie a queste influenze allora possiamo andare avanti e crescere migliorando.

Le tue canzoni evocano immediatamente la magia del deserto, le vesti scure dei Tuareg che si muovono al vento, il cielo immenso e le distese aride: immagino che i testi parlino di questo, ma cantando in questa lingua meravigliosa che è il Tamashek, non possiamo comprendere: qual è l’immagine che più ami nelle tue canzoni?

Per me l’ immagine per eccellenza delle canzoni è quella del deserto, ma non solo perché è da li che vengo: il deserto è il miglior posto dove suonare ed imparare la musica. Ci sono cosi tanto spazio e così tanto tempo. Vedo che da voi il tempo non c’è mai. Lì nel deserto invece la gente si può sentire più serena. Ognuno prende il proprio tempo. Se fa caldo si cerca un posto dove fa meno caldo, e va tutto bene. È molto semplice e naturale. Così la gente ha molto tempo per la musica, il deserto è il posto migliore.

E l’acustica deve essere eccellente, immagino:

Non c’è neanche bisogno di un amplificatore, è tutto perfetto. Il deserto, le sue notti, le stelle ed il silenzio profondo mentre tutto dorme. È la perfezione.

Sofia Parisi

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