“Foto di gruppo con San Pietro” intervista semi-seria a Lorenzo Gussoni

Passata Pasqua e Pasquetta, dopo qualche giorno di riposo e di redazione chiusa, ci capita di dover leggere e rispondere ad un numero più consistente di mail rispetto al solito. Oggi pomeriggio però “nel grande mucchio” ci è arrivata una mail con un breve articolo ancora a tema “Pasquale” ad opera di una nostra lettrice. Ci è piaciuto tanto e ci ha fatto sorridere a tal punto che ci è sembrato carino pubblicarlo e condividerlo con tutti voi. Ringraziamo con l’occasione l’autrice Ilaria Bombelli.

La redazione

Al momento del martirio chiese di essere crocifisso a testa in giù, come un pipistrello, per fugare ogni confronto con Gesù, cui pure toccò, con certo più vasta eco, il martirio della croce. Così lo figurò Masaccio – gambe all’aria – in una posa del tutto scomoda, che ti costringe a inclinare di molto la testa per riportarlo con i piedi per terra, e così lo dipinsero poi pure Filippino Lippi e il Caravaggio. Più facilmente, però, lo si riconosce per via delle chiavi (solitamente due), che sarebbero poi gli attributi della sua attività di piantone alle porte del paradiso. Ma rispondono iconograficamente alla sua immagine anche il mantello color giallo ocra, il pesce, il gallo, la barca (dove dette i primi segni di vocazione).
Pietro è il più febbrile e il più focoso fra gli apostoli. Si direbbe il più umano. Bellicoso, sanguigno, temerario, tremebondo, è uno che s’arrabbia facilmente, e con facilità si commuove, o s’appisola (anziché pregare, nel giardino degli ulivi). Ha smodati slanci di simpatia e carità, ma al momento di venire al dunque, vacilla. Tocca ripetergli le cose almeno tre volte (ha il pallino del numero 3). E se il gallo canta, ci resta di sasso. Nato in Galilea, sulla riva di un lago, ha fatto della pesca un mestiere – e una metafora. Per certo si sa che aveva una suocera, dunque una moglie, e che Gesù gliela guarì dalla febbre (e chissà lui come l’avrà presa). Vero è che, dopo la Pentecoste, cambiò da così a così. Iniziò a viaggiare in lungo e in largo, battezzò un pagano e firmò due epistole nel Nuovo Testamento. Quando Simon Mago provò baldanzosamente a levitargli davanti al naso in una prova di diavoleria, lui lo fece precipitare rovinosamente a terra, fracassandogli tutte le ossa. Alla fine diventò papa, il primo di una lunga fila (“Tu sei Pietro e su questa pietra eccetera”, anche se all’anagrafe faceva Simone) e poi, va da sé, santo. In questa veste consacrata oggi protegge i pescatori, naturellement, ma anche gli orologiai, i macellai, i calzolai, i fornai, i fabbri, i costruttori di ponti e di navi. Può adoperarsi e intercedere in caso di febbre alta, rabbia e problemi ai piedi.
Lorenzo Gussoni non è adepto per un vero apostolato, ma quando porta in scena l’apostolo Pietro, nello spettacolo teatrale “La Passione di Cristo” (che ogni anno, per la domenica delle palme, la compagnia “Non solo teatro Valbossa” srotola sui prati di una parrocchia ogni volta diversa, con gran concorso di pubblico), sa certamente il fatto suo. A guardarlo si ha un senso di trance. Sarà per via della vaporosa zazzera bianca che gli avvolge il capo, richiamando la visione dei barbuti padri che guidavano greggi e popoli, e gli dona quell’aria di essere fuori dal tempo. C’è in lui qualcosa di rustico, e a un tempo ricercato, come una frittata con i fiori di sambuco.
Lo avvicino che ha già indosso la tunica dell’apostolo, prima che la Passione cominci, mentre aspetta Gesù per la rituale foto di gruppo. “Ti si potrebbe scambiare per un profeta”, gli dico a voce bassa, quasi bisbigliando, “di quelli che danno i responsi in busta chiusa”. Lui sorride, alzando le spalle. “Non nutro sogni messianici”, obietta con tono bonario, “sono ateo”. E nel sentirlo pronunciare queste parole viene da riconoscergli una gioiosa intensità, e insieme un rigore ben suo, coperto e distaccato. Notando la mia reticenza nell’andare oltre quella confidenza, prova a farsi intendere. “Quando taglio via l’orecchio destro a Malco, mentre Giuda bacia il Cristo”, dice serrando il pugno e mimando il gesto dell’affondo della spada, “difendo Gesù come difenderei un amico”, assicura. E non c’è ragione di non credergli. A farne un’icastica descrizione, lo si direbbe un uomo che aspira a un’atmosfera autentica e a un impegno esclusivo nel presente. “Che mestiere fai?”, gli chiedo. “Sono un volontario del soccorso alpino per la protezione civile”, m’informa con malcelata fierezza. La capacità di porgere aiuto e di darsi agli altri non ha bisogno di inscenarla, ne dà prova ogni giorno. Gli domando se sa pescare, mi risponde di no, nemmeno una sardella. Al lago preferisce di gran lunga la montagna, e alle reti da pesca le corde più resistenti dell’alpinista. “A parte l’essere capovolto”, arrischio una battuta, “cosa ti fa andare il sangue alla testa?”. Scuote il capo con tutti i capelli scarduffati appresso, “la supponenza e la stupidità”. “E di cosa ti senti più responsabile?” “Soltanto delle mie azioni”. “Un maestro che ricordi?” “Mio padre”. Quando gli chiedo che rapporto ha con le chiavi, mugugna che ne ha troppe – le sento tintinnare mentre le agita nella tasca del saio – e che, fosse per lui, farebbe a meno anche delle porte. Pure di quelle del paradiso. “Non ce n’è bisogno”, taglia corto facendosi serio. “L’apostolo Pietro è passato alle cronache per aver negato”, puntualizzo, “tu a cosa non sai proprio dire di no?” Lui piega la testa da un lato, “Uhm…” ci pensa un attimo. Una voce lo chiama – “Pietro vieni, vieni!”, il Messia è arrivato e tocca fare la foto. “Al tiramisù”, mi confida salutandomi, e sul volto gli si diffonde un velato sorriso. “Sai, un tempo capitava tre volte al giorno. Poi tre volte la settimana. Poi tre volte al mese. Poi tre volte l’anno. Adesso, una volta ogni tre anni è già un miracolo”. E scoppia in una fragorosa risata, mentre s’avvia a prendere il suo posto fra i figuranti in posa.

Testo e foto di Ilaria Bombelli

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