“Il Senso di Te” – Scrittori di Provincia
Scrittori di Provincia è una rubrica a cura di Chiara Bellotti.
Qui potete trovare i racconti completi e le poesie degli scrittori/scrittrici della provincia!
Il Senso di Te – di Jessica Gentile
Aroma di caffè che, penetrando nelle narici, porta con sé l’atmosfera di una festa gioiosa, alle quattro del pomeriggio, quando i raggi del sole, attraverso la finestra, illuminano il volto assonnato dopo il riposo pomeridiano.
Profumo di dopobarba sulla pelle appena rasata, fragranza di resina del ciliegio dall’antico legno e dai lontani ricordi, maestoso ed eterno: come te.
Grida di bambini che giocano, litigano e si giurano amicizia eterna. Erba da poco tosata, terra appena bagnata, parole tra vicini, sciabordare dell’acqua della fontanella che lava via il segno della recente caduta.
Mani rugose che preparano la merenda al suono della televisione, delle mosche ronzanti e degli uccelli intonati: felice conclusione di una giornata di scuola. E tu sempre lì: sulla tua sedia, a capo tavola, con il cucchiaino che gira il caffè caldo e il volto sereno.
Accade, quel giorno: tu vieni a trovarmi: tanto tempo è passato e non so da dove tu venga. La mia bocca non riesce a pronunciare suono o parola e miei occhi sono incapaci di vedere: non sono più i raggi del sole a illuminarti, la luce è dentro di te. Non hai volto e mi accarezzi. Sei estraneo ai miei occhi, straniero alle mie orecchie: non tua è la voce, non tue sono le mani, non tua la gigantesca statura. Un’insolita fierezza disegna sul tuo volto la certezza di un segreto, che io non leggo.
Mi porti lontano e mi racconti la tua storia: tutto era incominciato da lì, dalla salsedine odorosa del mare di Calabria; e poi vennero gli aranceti variopinti e gli oleandri e il sole che brucia la pelle e, poi, l’anima del Mediterraneo, che calmò il tuo primo vagito e mai ti abbandonò, come la più bella delle madri.
Ti vidi ragazzo: correvi, correvi, senza sosta, il viso aveva i tratti della paura, respiri veloci e interrotti davano il ritmo alle gambe snelle e agili, i capelli neri, firma di una giovinezza appena sbocciata, incorniciavano la fronte sudata, bagnata, gocciolante. Corri, corri, continua a correre! Un sospiro: gli aerei alleati se ne vanno, il bombardamento è terminato, tu vivi ancora! Ma qual è l’odore della vita che si salva? Ancora non potevo sapere che essa ha fragranza di viole, di quelle che non appassiscono mai.
Poi nuovamente con te, poco distante dai colori del mare: il sole era quello della mattina, pallido, ma caldo; a fare da sfondo, si levava una chiesa dall’intonaco chiaro, piccola, graziosa; nell’aria si diffondeva profumo di incenso. Tra la folla, una ragazza vestita di bianco: giovanissima, gli occhi grandi e neri, gli zigomi delicatamente pronunciati e un sorriso gentile: ti dichiarava amore eterno, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore, e tu, davanti a Dio, le promettevi lo stesso affetto, stringendole le mani.
Tante difficoltà seguirono al momento felice: osservavo le prime leggere pennellate che la vita dipinge sul viso che matura e lo sguardo di chi, entusiasta e preoccupato, guarda alle creature a cui ha donato la vita. Soffrii, quando fui costretta a guardarti, mentre, con il magone dentro il petto e il cuore gonfio di lacrime, abbandonavi la tua terra, insieme alle sfumature, ai suoni e ai profumi che ti avevano cresciuto, per andare alla ricerca di maggiore fortuna e di un’esistenza meno difficile, tra gli odori, i rumori e i colori di un’altra terra, senza ricordi. Le umiliazioni riservate a chi viene da lontano, l’iniziale condizione di miseria e il lavoro logorante erano incapaci di scalfire la forza di un padre che voleva solo sorrisi sui volti dei propri bambini e si affrettava ad asciugare le lacrime, che, bagnando di rugiada le guance arrossate, puntavano il dito verso il giocattolo mancato, verso quell’occasione persa di poterli vedere felici.
All’improvviso, fumo, sigarette, svenimento, sangue, pancia gonfia, nausea, squilli nevrotici di telefono: panico. La sirena dell’ambulanza annunciava, gridando, il suo arrivo. Ospedale: ultimi saluti di chi non ha speranza alla famiglia che non può smettere di sperare. Sala operatoria, mascherine. Una bambina. Io. Luci bianche, agitazione, battiti cardiaci…Profumo di viole, di quelle che non appassiscono mai. Un uomo anziano, dalla barba lunga, umilmente vestito, ti aveva annunciato che no, non era ancora il momento giusto.
Da qui iniziarono a decifrarsi i fotogrammi infantili: le figurine del giovedì, la cioccolata, il permesso di giocare giù in giardino, i baci e gli abbracci stretti stretti; a questi seguirono i ricordi di ragazza, che tu ancora affettuosamente chiamavi “scamorza”: il mare, la salsedine, la tua terra, la mia terra, la gara a chi riusciva a tuffarsi per primo.
Tu, allora, sparisci e io piango.
I raggi del sole, ora, illuminano una sedia a capo tavola, vuota; io siedo sotto il ciliegio maestoso ed eterno, che non c’è più, come te. Quanti rimorsi, quanti rimpianti, quale angoscia, deserto e abbandono. Chiudo gli occhi: ad un tratto, una brezza marina fa suonare le fronde dell’albero addormentato e mi avvolge, proteggendomi, uno strano aroma, che ora, distante da te, mi sembra di non riconoscere più. Un’altra folata di vento leggero, avvicinandosi, mi abbraccia e, questa volta lo sento e lo amo: violette.
Eccolo, nonno, quel profumo. Eccoti.
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