“Il Teatro degli Orrori” – intervista esclusiva per VivaMag

Nuovo album e nuovo tour. Al decimo anno di carriera, Il Teatro degli Orrori riesce ancora a sfondare i palchi ottenendo la completa attenzione di pubblico e critica. Abbiamo intervistato Giulio Ragno Favero, bassista e produttore del gruppo, per farci raccontare tutti i retroscena.

Com’è arrivata l’idea di questo quarto album? Rispetto ai brani del precedente “Il Mondo Nuovo”, quelli nuovi sono dodici cazzotti tirati dritti in faccia…

L’idea era quella di recuperare l’atmosfera del live che è molto più cruenta e rock. “Il Mondo Nuovo” era vario, c’erano molte strade intraprese. Questa volta abbiamo deciso di fare un lavoro a senso unico. Tutti i pezzi vanno nella stessa direzione. Siamo più vicini ad un disco hard-core, nel senso che l’amalgama sonora è protesa verso un unico tipo di suono.

E’ stata una scelta accettata da tutto Il Teatro?

Prima di mettere giù i pezzi avevamo intenzioni bellicose, nel senso che era un’idea comune: il disco doveva suonare come una sberla. Volevamo fare un album senza compromessi di genere.

E a livello di produzione, come ti sei trovato nel ricoprire contemporaneamente il ruolo di musicista e produttore?
Bella domanda… di solito impazzisco! Arrivato ai quaranta però ho capito che posso evitarlo. Questo disco è stato affrontato a dodici mani. Tutti noi abbiamo preso parte alla sua lavorazione. C’è chi si è occupato dell’editing e chi si è registrato da solo. Alla fine ho lavorato meno come tecnico del suono. Mi sono tolto un po’ di peso ma ho comunque dato la direzione. Alla base c’è stato un lavoro di gruppo che ha portato ad un risultato migliore.

Anche a livello di composizione?
Ho letto qualche critica sul fatto che non ci fossero delle canzoni belle come quelle contenute nel primo album. Ma sinceramente tutte le canzoni che facciamo, per noi lo sono. Questa volto sono soddisfatto soprattutto del risultato sonoro. E’ Il Teatro che suona meglio. Gli altri non avevano un’identità così forte a livello audio. Lo so che è un pugno. Poteva esserlo anche di più ma ho deciso di contenerlo per fare in modo che chi non fosse vicino al genere avesse la possibilità di approcciarsi.

“A Sangue Freddo” e “Dell’Impero Delle Tenebre” come li trovi invece?
I suoni uscivano e s’infilavano in alcune frequenze che rompono le palle alla gente, più graffianti e taglienti. Oggi bisogna confrontarsi con il fatto che la musica viene ascoltata ovunque, in macchina, nell’impianto di filo diffusione dell’ufficio, in cuffia, dal computer: ovunque tranne che su un supporto adatto. Di solito una persona aveva un bell’impianto a casa con due belle casse, si sedeva e ascoltava il disco. Oggi bisogna mediare con tutti i nuovi supporti e credo di essere riuscito a sormontare questo scoglio.

In un’intervista, il fotografo Giovanni Gastel diceva che “gli errori plasmano lo stile”.
Certamente! Anche se mi fa ridere che le critiche mosse nei confronti di quest’album riguardano il fatto che i primi nostri due dischi fossero irraggiungibili. All’uscita del primo, a nessun gliene è fregato un cazzo. Se ne sono accorti tutti anni dopo. Addirittura dopo l’uscita di “A Sangue Freddo”. Mi viene da chiedere “come seguiamo i gruppi”? Evidentemente non come meriterebbe l’artista. Nel momento in cui un’artista propone se stesso nell’opera, prima di esprimere un giudizio del tipo “torneranno mai i tempi in cui”, bisognerebbe capire la storia ed il percorso. Non il fatto in sé. Quella del primo disco come il migliore è una leggenda. Spesso, e parlo in generale, sembra manchi una capacità di analisi. Sento parlare molto la pancia e poco la testa.

Invece, per quanto riguarda i live, come sta andando il tour?
La cosa più interessante rispetto ai precedenti è il livello di attenzione del pubblico. Noi del Teatro siamo tutti un po’ stupiti. Prima lo sentivamo più come un “c’è Il Teatro vado a far caciare”. Oggi invece non è così, la gente ci ascolta. Quando ci sono cinqucento persone tutte attente ad ascoltare quello che suoni, te ne accorgi. Sono milleduecento occhi puntati. E’ un’energia diversa, è una voglia di comprensione: pochi cellulari, poca gente che filma. Siamo molto soddisfatti per come stanno andando le cose. Abbiamo ricevuto poche critiche che bene o male non ci hanno toccato più di tanto. Alla fine quello che importa è il concerto e tutte le emozioni che ti riesce a passare.

Ma quando una persona ascolta l’album cosa dovrebbe aspettarsi dal concerto?
Non dovrebbe aspettarsi nulla. Dovrebbe viversi ciò che accade al momento. Mettiamo tutto noi stessi durante i concerti. Ci entusiasma quando le persone vengono a sentirci e vanno a condividere un momento. Noi vorremo trasmettere la nostra energia e materializzare uno scambio umano che di questi tempi è importante, dato che sembriamo essere tutti vicini difronte ad uno schermo e poi siamo così lontani tra di noi. I concerti sono delle piccole cerimonie di aggregazione.

Quando avevi vent’anni e andavi ai concerti per te era già così?
Ne parlavo giusto con Capovilla. Quando a quell’età andavamo ai concerti, speravamo di trovare l’ignoto. Non il noto. Il regalo più grande che ti portavi a casa erano le emozioni nuove date da quelle persone mai conosciute. Oggi succede il contrario. Se la gente non conosce tutti i pezzi nuovi, non si gode abbastanza i concerti. Noi non crediamo in questo. L’energia che trasmettiamo non pensiamo abbia bisogno di essere compresa precedentemente. Se hai delle aspettative, ti perdi il bello del concerto. Venite a godere (ride)!

In generale, e mi riferisco a tutti i concerti della nostra provincia, accade spesso di sentire il pubblico insoddisfatto o addirittura annoiato perché difficilmente arrivano delle sberle in faccia da parte delle band…
Ma è normale e succede anche quando ti arrivano. Oggi la vita è talmente piena di input che prima di sconvolgerti completamente, dovrei… non so, almeno spararti (ride)! Secondo me è una cosa che si è creata negli anni. Quando andiamo a suonare al sud, dove ci sono molti meno concerti e non sanno chi sei, il locale è frequentato ugualmente. La gente ti apprezza in un modo diverso. Di sicuro però c’è una bella divisione tra nord e sud sotto questo punto di vista. Non che non ci piaccia suonare al nord, però il sud è più aperto, si lascia coinvolgere di più.

Per quanto riguarda le collaborazioni invece? Nel precedente “Il Mondo Nuovo” avete ospitato gli Aucan, Appino e Caparezza…
Questa volta ci sono stati solo dei piccolissimi camei. Federico Zampaglione e Chiara Giancardi hanno recitato una commedia, in “Sentimenti Inconfessabili”, dove interpretano una coppia che si sveglia nel cuore della notte a causa dell’incubo che lui ha avuto. Poi nello stesso pezzo c’è il sax di Guglielmo Pagnotti che è un nostro caro amico, un professionista pazzesco. Infine Nadj, un’artista francese con cui io e Franz abbiamo lavorato per un suo ep. Gli ho chiesto di fare delle urla in “Genova”, cercando di simulare la tortura del momento. Sono state tutte collaborazione non pensate. Nell’altro disco c’erano gli archi, i synth e abbiamo avuto l’idea di fare un pezzo con Caparezza per misurarci con l’hip pop. Qui non ne abbiamo sentito il bisogno.

Il fatto che in questo quarto album non ci sia stata la Universal, non ha inciso sulla produzione?
No zero. La Universal, come tutti i nostri collaboratori e distributori, non ha mai messo lo zampino a livello artistico. Anche perché glielo avremmo strappato a morsi. Questa cosa è stata sempre chiara: noi vogliamo fare ciò che c’interessa. In questo siamo molto rispettati. Per questo disco abbiamo scelto come editore la Warner e come distributore Artisti First: è un distributore indipendente composto da persone veramente competenti. Abbiamo avuto screzi ai tempi di “A Sangue Freddo” con l’editore, che è anche un caro amico a cui voglio molto bene. In fase di mix arrivava e chiedeva “tieni la voce un po’ più su!”. Sono quelle cose che a volte ci si sente dire. Ma in generale zero, non abbiamo mai avuto nessun tipo di pressione.

Davide Felletti

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