La grande truffa dell’indie rock – mistero in Cambogia
Qualche tempo fa un mio collaboratore mi segnala il “caso” Cambogia: un finto cantautore indie che per circa un anno ha preso “per il naso” tutta la community a suon di video fantomatici, introvabili demo in cassetta, interviste con tanto di elogi, alcuni haters e più di 40 richieste di live da tutta Italia. Bravo il collettivo dietro questo progetto perché ha dimostrato che con un minimo di abilità DIY si può vendere e “spacciare” un artista il cui hype supera di gran lunga il contenuto (figuriamoci in mano a dei professionisti come etichette e uffici stampa). Un “esperimento sociale” a detta degli autori ma forse, cartina tornasole per comprendere un fenomeno ormai radicato tra i fruitori di musica indipendente del belpaese.
Dopo questa notizia infatti mi aspettavo dal “popolo dell’indie” una piccola rivoluzione da tastiera: social colmi di post sull’argomento, commenti al vetriolo, giovani ragazze sull’orlo della disperazione. E invece nulla. Esattamente come quando guardavo Report su Rai Tre e speravo che il giorno dopo la messa in onda del servizio che denunciava un illecito, la macchina della giustizia si sarebbe messa in moto. E invece nulla, niente, il deserto.
Per Cambogia il deserto proprio no, a dire il vero qualche battuta l’ho anche intercettata, ma niente dai toni troppo accesi, nulla che sembrasse la delusione di una generazione…
Il punto è che forse io questa generazione non l’ho capita o non l’avevo capita fino ad ora.
Cuffie e smartphone in mano, connessi costantemente con il mondo dei social e della stampa web specializzata. Un mondo molto veloce, come lo scorrere il dito su uno schermo. In modo selettivo o distratto e passivo. La quantità di informazioni e proposte è altissima. In pratica l’equazione per cui ogni ragazza o ragazzo con la reflex in mano ha un account da “photographer”, equivale ogni ragazza o ragazzo con la chitarra in mano (o meglio l’iPad con una serie di app) ha una propria band o progetto musicale.
Questo da un certo punto di vista lo trovo molto “popular”, livellante nelle possibilità di espressione artistica e democratico. E’ giusto che chi ha qualcosa da dire lo dica con i mezzi che ha a disposizione e comprendo anche la semplicità di un nuovo cantautore contemporaneo. E altrettanto comprendo che chi voglia ascoltare la proposta musicale di nicchia abbia diritto di reperirla senza fatica.
Quello che non comprendo è come con l’urgenza comunicativa si giustifichi tutto: il non avere una cultura musicale pur avendo potenzialmente la possibilità (sempre con la rete) di avere a disposizione praticamente qualsiasi album o canzone a costo zero (o quasi), il fatto di non avere idea di cosa significhi costruirsi un’identità musicale da una parte o dall’altra della barricata (ascoltatori/artisti).
Ecco, una cosa che odiavo nel mio approccio con le persone in passato era la risposta “di tutto” alla domanda “che musica ascolti?”. Come se vi chiedessi “qual’è il tuo tipo di uomo o donna” e voi rispondeste “basta che respiri”, che poi è come dire “di tutto”. Questo significa che dell’altro sesso non avete capito molto ma anche per la musica, con una risposta del genere, poco cambia.
Allora, sono giunto alla conclusione che forse la musica “indie” ha semplicemente preso il posto di chi se ne è andato, di chi non presidia più luoghi e spazi, di chi ha cambiato vita e di chi è cresciuto.
Oggi spingono passeggini e girano incravattati quelli che 15, 20 o più anni fa riempivano le platee della musica indipendente. Quelli delle playlist su cassetta, della ricerca agli album “fondamentali” per la propria collezione (e percorso) musicale fra i cataloghi della vendita per corrispondenza di cd o nei negozi di dischi.
Quelli della band che aveva fatto due demo e tanto suonare in giro prima di incidere il primo cd per un etichetta. Il cui cantante aveva provato a non stonare troppo con le lezioni di canto prese di nascosto dalla band e 80 concerti nei peggiori pub d’Italia, mica con un “aggeggio” digitale per mettere pezze (e nemmeno tanto bene) a qualcosa che meritava più tempo in sala prove.
Queste persone non ci sono più, fanno altro o si lamentano (come il sottoscritto) di questo “imbarbarimento” della scena musicale indipendente.
E quindi Cambogia, o chi realmente vuole rappresentare, è giusto che abbia preso possesso di queste “case abbandonate”. Che abbia rotto vetri e scassinato porte. Abbia “unto” i meccanismi giusti del marketing e fatto leva sui desideri dei meno preparati.
E’ giusto che una generazione abbia trovato la propria voce fra uno shuffle su Spotify e una bottle flip, fra una canzone che parla di università o di cuori infranti, da una spunta azzurra su Whatsapp senza risposta.
Forse non è giusto continuare a dare credito a qualsiasi cosa a portata di click: quelle benedette preview sulle pagine social apritele e ascoltatele prima di lasciare un like sulla fiducia.
Vincenzo Morreale