Max Gazzè: “Un artigiano della musica” – Intervista esclusiva di Vivamag
Sabato 20 giugno Max Gazzè suonerà a Comerio in occasione della terza edizione di Microcosmi, il festival di musica, danza e arte che ha come padrino il musicista, compositore e produttore Vittorio Cosma.
Vivamag ha avuto il piacere di intervistare l’artista romano, fare quattro chiacchiere con lui in maniera del tutto informale sulla sua carriera, sentire il suo parere su come si prospetta l’esperienza di Microcosmi e parlare di qualche curiosità.
Ciao Max, sabato avremo il piacere di vederti sul palco di Microcosmi a Comerio. Ci vuoi raccontare di come è nata la collaborazione e l’amicizia fra te e Vittorio Cosma?
Nella musica ci si frequenta e ci si incrocia molto spesso non solo per motivi professionali. Vittorio lo conosco da molti anni ormai, quindici direi tutti. Mi ha coinvolto nel 2005 nel progetto Gizmo; una band capitanata da Stewart Copeland dei Police con Raiz degli Almamegretta (e lo stesso Cosma n.d.r.). E’ capitato di suonare insieme solo in quella circostanza, ma fra musicista e produttore ci si intende (anche io sono fondamentalmente un musicista/produttore – nonché bassista) ed ho subito trovato affinità con Vittorio. Nutro un grande rispetto per il suo percorso, la sua carriera e trovo che in generale sia una persona molto gradevole.
E’ la prima volta che ti capita di suonare in provincia di Varese?
Ho suonato moltissimo negli ultimi vent’anni in tutta Italia e ho già avuto occasione di frequentare le vostre zone. Per me è un grosso piacere poter partecipare al festival in una cornice così suggestiva come quella di Villa Tatti Tallachini.
Dopo aver fatto questo tour molto impegnativo e altrettanto gratificante assieme a Niccolò Fabi e Daniele Silvestri, dall’Arena di Verona fino ai palazzetti dello sport, l’idea di partecipare a rassegne più intime e in situazioni più raccolte per me è una grandissima gioia.
Un’occasione per poter condividere qualcosa in modo molto diverso rispetto a quello che ho fatto negli ultimi due anni, ovvero creare un’atmosfera e un clima che possa interagire con il luogo in cui stai suonando. Come se la tua performance sia influenzata in modo “morfo-genetico” dall’ambiente che ti circonda. L’interpretazione dei brani viene sicuramente influenzata, in positivo.
Riguardo invece ai brani che proporrai al festival, hai già definito una scaletta?
In realtà no, perché con la band con cui suono da più di quindici anni abbiamo una tale intesa da poter decidere in base all’umore del momento. Addirittura ci sono stati alcuni concerti dove abbiamo messo dentro una custodia di chitarra dei foglietti con scritti i nomi dei brani e facevamo scegliere a caso ai bambini (ride!). Faremo sicuramente una selezione da tutti i miei album, ma per questa volta non inserirò brani composti assieme a Niccolò e Daniele. Ci tengo che sia una serata dove si respiri un clima informale, mettendoci però la stessa passione che contraddistingue tutti i miei concerti.
L’artista è colui che in qualche modo trasporta un messaggio e lo fa attraverso il linguaggio della musica, ma ad ogni modo deve comunicare l’arte in quel momento. Ci tengo a condividere con il pubblico il processo artistico.
L’artista non è solo colui che traduce qualcosa di metafisico, di artefatto ma interagisce anche con la sensibilità di chi ascolta, che di fatto, diventa artista nel momento in cui percepisce un’emozione. Perché chi ascolta entra attraverso questo artefatto a contatto con un processo artistico.
In passato hai partecipato alla composizione di un album tributo a Robert Wyatt ( “The Different You – Robert Wyatt e noi” con il brano “O Caroline” n.d.r.) immagino che sia stata una scelta che deriva dal tuo background, dai tuoi ascolti e dalla tua formazione musicale.
Per me è normale ascoltare tantissima musica e da giovanissimo fra questa c’era anche il progressive come i Genesis, Peter Gabriel solista e i Pink Floyd. Poi su tutti i King Crimson, una band di cui ero davvero appassionato e di cui possedevo tutti gli album, dal primo all’ultimo.
Robert Wyatt l’ho scoperto più in là, nella preparazione di questo disco ho avuto l’occasione di riascoltare quelle canzoni che già conoscevo, fra le quali “O Caroline” che è stata poi il brano che ho interpretato per il disco. Ho anche avuto modo di conoscere personalmente Robert: un’artista molto stimato e apprezzato anche dai più quotati esponenti dell’attuale scena musicale britannica.
Nel tuo periodo a Bruxelles suonavi il basso in band locali, cosa ti capitava di suonare?
Ho suonato nei 4 play 4 e in tantissime band che in questo momento sarebbe lunghissimo citare.
Ho cominciato a suonare come bassista in un gruppo jazz, poi in uno punk, poi in uno northern soul (molto alla Paul Weller). Ero anche produttore, attività che ho sviluppato da subito, contemporaneamente a quella di musicista.
E quando sei tornato a Roma?
Nei primi anni novanta quando sono tornato a Roma avevo in testa ciò che poi è diventata la mia professione: un progetto musicale che mettesse in musica le poesie scritte da mio fratello Francesco. Tutto è nato dalla sperimentazione e dalla volontà di mettersi in gioco.
Molto spesso mi capita di pensare che la tua musica si discosti in qualche modo dalla scuola “romana”
Io non sono cresciuto a Roma, sono andato a vivere a Bruxelles, a Londra e poi in Francia e per questo ho assorbito molto poco l’influenza della scuola musicale romana.
Sono cresciuto musicalmente fuori da questa città che poi ho dovuto imparare a conoscere e riscoprire appena tornato in Italia. Le mie origini, oltretutto, non sono nemmeno romane (sono per metà siciliano e per metà francese) per cui vivo qui, ma è chiaro che l’ambiente influenza quello che scrivi. Credo che molto del mio modo di suonare e comporre venga da una formazione più britannica che italiana. Coi 4 play 4 fu un’esperienza importante in un periodo importante della mia vita (adolescenza e post- adolescenza). Sono stati anni fondamentali per forgiare un modus di fare musica che poi ho miscelato con le più disparate influenze.
Una tua opinione sulla scena romana attuale, se ci sono nuove proposte che suscitano in te interesse o curiosità…
Fino a qualche anno fa giravo molto e uscivo spesso perché ero curioso di sentire quello che c’era di nuovo in città. Ultimamente fra tourné e figli, mi rimane davvero poco tempo. Ogni tanto mi giunge qualche voce, qualche suggerimento rispetto a progetti interessanti che vado poi ad ascoltare sul web cercando di capire di che cosa si tratta. Ma un conto è sentire casualmente delle cose e un conto è seguirle attivamente.
Di proposte interessanti in questo momento credo che ne esistano sicuramente. Il mio unico augurio è quello che dietro ci sia una progettualità a livello discografico. Chi si occupa di promuovere la musica, di costruirla e coltivarla non deve buttare un progetto interessante nel secchio se non dà risultati al primo colpo. Bisogna come minimo fare una progettualità almeno triennale per le nuove proposte.
Purtroppo adesso il dramma è che ci sono cose molto interessanti ma che non vengono seguite e promosse come si dovrebbe. Non basta mandare una proposta a X-Factor, Amici o The Voice e poi basta. Ci sono percorsi diversi che è bene considerare. Mi immagino ad esempio Bob Dylan, che se oggi fosse andato ad X Factor l’avrebbero scartato dopo appena un giorno.
L’espressione, l’espressività di ciò che tu comunichi non è solo il bel canto, c’è molto di più.
Ciò che credo che manchi adesso è proprio questo modo di lavorare nella musica, cosa che invece si faceva normalmente negli anni’70, ’80 e anche ’90.
Max, grazie per il tempo che ci hai dedicato per l’intervista…
E’ stato un piacere! Ci vediamo allora sabato a Microcosmi!
Intervista di Vincenzo Morreale. Si ringraziano Mira Dujela, Francesco Stringhetti e Elena De Vito.