“Sala prove” – Guida coi cinghiali – There Will Be Blood

La sala prove dei There Will Be Blood è un luogo molto underground. Nel senso che per entrarci bisogna scendere una decina di gradini per trovarsi circa a tre metri e mezzo sotto il suolo. Il che è perfetto per suonare: soffitto basso per non avere eco, metri cubi di terreno dietro le pareti per non disturbare il vicinato, qualche grado in meno d’estate, e nessuno si stupisce se per datare l’ultima volta che hai pulito devi risalire all’ep auto-prodotto di quando ancora suonavi con il combo a transistor da 40W. Avere una sala prove a disposizione è fondamentale per una band che punta molto sulla performance live e che compone i propri pezzi a 4, 6, 8, 10 mani. E’ un posto dove poter lasciare la batteria sempre montata, le casse degli amplificatori già posizionate, gli scatoloni del merchandise accatastati. Il luogo da dove inizia ogni trasferta, dove per la prima volta ci si emoziona per un nuovo pezzo, dove tutti insieme si scarta la prima copia dei vinili arrivati dalla stampa… La sala prove sta alla band come la casa sta a una famiglia. E’ un luogo di quotidianità, un punto fisso di inizio e di fine, fa parte di quella sacra routine che dimostra la salute del progetto, se non si prova spesso, tutti assieme, nello stesso posto è difficile coltivare il feeling necessario per “girare bene”. E’ proprio per questo fattore di routine quotidiana che difficilmente nella nostra sala prove sono successi eventi abbastanza bizzarri da meritare di essere raccontati. Serve introdurre un elemento estraneo che ne rompa la ritualità. Come la volta in cui hanno voluto filmare una nostra prova ma si è poi scoperto che nell’inquadratura della videocamera principale si vedeva anche il pezzo di spugna fonoassorbente che anni e anni prima era stato goliardicamente ritagliato e incollato sul soffitto. “Ah cazzo ma quello è un cazzo, cazzo!” aveva commentato il cameraman visionando il girato. O quella volta in cui era sparito il gatto da due giorni, fino quando abbiamo aperto la porta e un missile è sfrecciato fuori ad altezza caviglie. Tutte vicende insolite sepolte nell’ordinario come pezzi di bottiglia in una spiaggia. Ci siamo scervellati per trovare qualcosa che valesse la pena raccontare ma le cose più divertenti e assurde ci sono ovviamente successe fuori dalla sala prove, fuori dalla confort-zone, “on the road”. Perché diciamoci la verità: finché resti in sala prove stai ‘a giocà… Sei una vera band solo se vai in giro a suonare, rompi il guscio dell’uovo e salti giù dal nido.

E per questo con un “fuck-it” molto rock abbiamo deciso di ignorare l’unico vincolo che ci era stato dato e raccontare di qualcosa che ci è successo non in sala prove. D’altronde di Ulisse si sa tutta l’Odissea per tornare da Troia a Itaca ma poi una volta che si è messo le ciabatte e si è seduto comodo sul trono abbiamo tutti cambiato canale.

Ovviamente questa lunghissima introduzione che ha il solo scopo di nascondere il fatto che siamo dei noiosi bravi ragazzi e che la cosa più trasgressiva e pericolosa che c’è nella nostra sala prove sono le prese multiple infilate nelle prese multiple infilate nelle prese multiple attaccate alla corrente (ma noi non abbiamo paura perché la vita va vissuta pericolosamente).

Ma veniamo al racconto: era l’anno 2014. Eravamo ancora in formazione a tre, stavamo portando in giro l’album “Without”, la settimana prima avevamo suonato al Miami, quindi faceva caldo, nel tragitto da casa a Savona avevamo ascoltato la radiocronaca di una partita dei mondiali (chi se ne frega che partita era, tanto quell’anno ci hanno buttato fuori). La meta era un locale che si chiama RainDogs House. Non ricordiamo con precisione come andò la performance ma di certo il gestore ne fu soddisfatto, l’impegno ce l’avevamo messo, la sudata ce l’eravamo fatta, qualcuno aveva ballato, i soldi ce li avevano dati. Insomma non avevamo motivo di sospettare nessuna ripercussione negativa, tanto più che le ultime parole dell’organizzatore della serata furono rassicuranti: “Allora ragazzi per stanotte vi ho preso tre letti in un ostello”. Il live al RainDogs era stato quello che si dice “una data secca”, ovvero il giorno dopo non avremmo dovuto suonare da nessun’altra parte, ma comunque avevamo preferito fermarci a dormire per poi rimetterci in macchina la mattina dopo. In fin dei conti una volta che finisci il live e smonti tutto si son fatte sempre le tre di notte e a guidare per 200 Km a quell’ora si rischia il colpo di sonno, e va bene vivere pericolosamente ma meglio non morire precocemente. “Il proprietario però non ci sarà quando arriverete, mi ha lasciato le chiavi e il numero della stanza. Quando arrivate lì apritevi da soli la porta e fate come se foste a casa vostra…”

Beh, perfettamente comprensibile, non tutti hanno una reception aperta 24 ore su 24, noi poi saremmo andati direttamente a letto, dove stava il problema? “L’ostello è un pelo fuori Savona, su in collina… forse la strada sarà un po’ dissestata ma poi domattina vedrete che bel panorama, si vede tutta Savona e il mare”. E che vuoi di più? A noi che veniamo dalla pianura fa sicuramente piacere portare il naso dove c’è l’aria pulita. Di strade non asfaltate poi ne avevamo già fatte tante, dove stava il problema?

Il primo problema stava nel fatto che la strada era stretta, una carreggiata sola, rami ed erba che schioccano sugli specchietti retrovisori come schicchere sulle orecchie. Buche abbastanza profonde da farti sobbalzare fuori la bestemmia come un singhiozzo. Tanto buia che ti accorgi della curva quando ormai è quasi finita, peggio per te, te la sei persa.

Riccardo guidava con gli abbaglianti spianati, la presa salda sul volante e il collo teso in avanti nel vano tentativo di sviluppare un qualche tipo radar da pipistrello. “Ragazzi ma qui non c’è niente, manco un cane…” la frase fu interrotta dall’apparizione di due punti scintillanti che galleggiavano in mezzo al nulla. La frenata fece scivolare le ruote sulla ghiaia alzando una cortina di polvere. Dietro al pulviscolo i due puntini brillavano ancora. Quando la polvere si fu posata dietro non c’era un cane, perché effettivamente lì manco un care c’era… C’era un cinghiale. Fermo. Seduto. Ci guardava fisso. Probabilmente si chiedeva cosa cazzo ci facessimo lì. Restammo in silenzio e lui si alzò, smise di guardarci e si diresse verso il ciglio della strada, dove scomparve fra l’erba alta. Ci sono diversi modi per valutare quanto un luogo sia remoto e distante dalla civiltà, non per sembrare snob ma probabilmente la presenza di animali selvatici indica un buon livello. Fu inevitabile a quel punto porsi la domanda se valesse la pena desistere e tornare indietro o persistere fiduciosi. La scelta fu facile: la strada era stretta, impossibile fare inversione. Proseguimmo.

Lo scenario si ripeteva in loop come gli sfondi fasulli dietro i finestrini delle auto guidate nei film anni 70. Poi finalmente, sulla sinistra, un cancello. Un tempo forse il suo colore avrebbe potuto essere verde, ma una generosa mano di ruggine lo aveva ormai sostituito ed il resto era strangolato dai rampicanti. Dietro il cancello si facevano strada nell’oscurità le tracce gemelle di tutti gli pneumatici che prima dei nostri si erano avventurati lì dentro. Avanzando lentamente sentivamo solo lo scricchiolare della ghiaia. Ad ogni metro la luce dei fari ci rivelava qualcosa in più’: la fine del viale di ingresso portava ad uno spiazzo sterrato, un parcheggio. Nel parcheggio una sola auto, l’unico elemento a non sembrare abbandonato da sempre. Al limitare del parcheggio, un edificio di tre piani, squadrato e di cemento, occupava l’intera visuale. Aveva l’aspetto banale ed austero che hanno le architetture istituzionali, come le scuole, o gli ospedali. Anche se ora veniva usato come ostello della gioventù non c’erano dubbi che nel passato fosse stato qualcos’altro, difficile dire cosa. Eppure, nonostante la mancanza di indizi oggettivi, le nostre menti irrimediabilmente plagiate da anni di racconti, videogiochi e film, giunsero tutte alla stessa conclusione. “Oh ma che cazzo è sto posto? Un ex-manicomio abbandonato?”.

Al centro della facciata di sinistra del manicomio una piccola porta scarsamente illuminata sembrava essere l’unica via di ingresso disponibile. Ancora stavamo raccogliendo il coraggio per scendere dall’auto quando la porta si aprì. “Oh! Oh! C’è uno che esce!”. La luce sopra la porta illuminava lo sconosciuto da dietro, lasciandocene vedere solo il nero profilo. La sagoma che sgusciò lentamente fuori dalla porta era quella di un uomo incappucciato, con un lungo mantello, che camminava zoppicando lentamente.

A quel punto la scena era talmente assurda da essere ormai sfociata nel ridicolo. Il cliché più vecchio della cinematografia horror. La sceneggiatura di un pigro regista alle prime armi che si presenta sul set in tuta e occhiali da sole, sorseggiando un caffè in preda ai postumi di una sbornia. Si rende conto che per far durare il film almeno un’ora i protagonisti dovranno sfuggire più e più volte dall’assassino pazzo e taglia corto: “Vabbè ragazzi, non lo so, me fa male la testa, perché devo fa’ tutto io qui… famo che è zoppo, che cammina male, nun po’ correre e se ne va lento come mi nonna va bene? Oh…”. La solita banalità irrealistica insomma. Eppure ci stavamo cacando sotto. E continuammo a cacarci sotto per tutto il tempo che l’uomo impiegò a raggiungere il raggio d’azione dei fari, barcollando, arrancando, ondeggiando nella suo mantello, nascosto sotto il suo cappuccio, diretto verso di noi… Era un tizio in mutande.

In mutande e accappatoio che camminava in ciabatte sui ciottoli. Le infradito, notoriamente le calzature meno agili al mondo, gli scivolavano ad ogni passo sui sassi. E quindi andava in giro come Quasimodo. Arrivò all’auto parcheggiata, aprì la portiera, si caricò una busta di plastica sulla spalla e riprese il suo difficoltoso pellegrinaggio verso la porta. All’interno il manicomio non deluse le nostre aspettative.

Il tempo che impiegammo a raccogliere le nostre cose dal portabagagli ci permise di evitare di incontrare l’uomo in accappatoio. Alla luce dei telefoni il corridoio subito dopo l’ingresso era una lunga sequenza di porte verdi. Le grandi lampade al neon erano spente ma una luce fredda arrivava dal piano superiore attraverso l’ampia rampa di scale che iniziava alla fine del corridoio. Una grande vetrata sostitutiva per intero la parete sinistra della scalinata. E dietro la vetrata: il nulla, solo buio. La luce ci aveva guidato fino al piano superiore filtrava da una porta socchiusa. Dietro la porta una stanza piastrellata dal pavimento al soffitto, lavandini appesi al muro uno a fianco all’altro, senza nessuno specchio, dopo i lavandini altrettanti orinatoi a muro e dal lato opposto una mezza dozzina di cabine wc. Un cesso insomma. La familiarità di quel bagno ci fece capire che non ci trovavamo in un ex manicomio ma quasi sicuramente in un’ex colonia, qualcosa di molto simile ad un liceo ma ubicato decisamente al di fuori del perimetro cittadino.La stanza a cui le nostre chiavi davano accesso ricordava molto un’aula scolastica, fatta eccezione per i letti a castello in metallo che sostituivano i banchi. Gli infissi che reggevano le grandi finestre erano sgretolati dal tempo e dall’incuria. Decidemmo all’unanimità che la bassa qualità dell’aria nella stanza non giustificava l’azzardo di tentare di aprirle. Impossibile smuovere le tendine veneziane, abbandonate sghembe ed accartocciate, a ventaglio come le aveva lasciate chi prima di noi aveva lottato e perso, probabilmente restando con un pezzo di corda in mano. Ovviamente fu il sole a svegliarci il mattino dopo.

Alla luce del giorno era tutto diverso, il panorama dalle finestre era effettivamente bellissimo: le case piano piano sostituivano gli alberi scendendo fino alla spiaggia dove il mare sfumava nell’orizzonte. Al ritorno la strada sterrata sembrò molto più breve della notte passata. Nessun incontro inaspettato. Ne il cinghiale, ne l’uomo in accappatoio.

A distanza di anni abbiamo scoperto che quel delizioso ostello è stato chiuso ed abbandonato. L’Amministrazione Comunale ha provato a raccogliere cinque milioni di euro per riqualificarlo, non ce l’ha fatta. Dei teppisti mai identificati dalla magistratura lo hanno devastato e nell’aprile del 2020 sembra siano partiti dei lavori di bonifica per renderlo in grado di ospitare l’hub di smistamento profughi di Savona.

Chissà cosa ne sarà di quel posto. Di certo noi lo ricorderemo per sempre. Noi e gli altri fortunati ospiti che nel luglio del 2012 lasciarlo una recensione su trip advisor che leggemmo troppo tardi: “Valutazione una stella e titolo L’ostello degli orrori”.

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